Oggi Giovanni veste l’abito buono, non la solita tuta sportiva che è la nostra divisa ufficiale. Per il passeggio nel cortile ha tirato fuori dalla “bilancetta” il maglioncino e i pantaloni che indossa nei colloqui con i familiari, ha lasciato sotto la branda le scarpe da tennis e calzato gli sneakers, ha stretto le spalle dentro un giubbottino casual invece del consueto smanicato. Invidio la sua abilità nel mettere sottovuoto i capi di abbigliamento, affinché non occupino troppo spazio nell’armadietto. Li spruzza con un po’ di profumo, li richiude nelle buste che adagia sullo sgabello e vi si siede sopra, lentamente. L’operazione dura diversi minuti, ma alla fine lo spessore non supera il mezzo centimetro.
Pure per noi carcerati è Pasqua. Nel cortile ci scambiamo gli auguri, nonostante l’anima in pena e la testa altrove. Nelle nostre case ci sarà poco da festeggiare e la metafora del Calvario vale per noi e per i nostri cari. Portiamo insieme la croce: e chissà chi ne soffre di più il peso.
In galera i giorni festivi opprimono il doppio. Non viene consegnata la posta, il gancio con l’esterno che fa sentire vivo chi si trova sepolto qua dentro e la chiusura della saletta, alla quale si può accedere per un’ora dopo il passeggio, appare un gratuito supplemento di afflizione. Usciamo dalla cella solo per le ore d’aria e, al momento di rientrare in sezione, alle quattro del pomeriggio ci diamo già la buonanotte.
Per la domenica delle Palme il cappellano ci ha fatto avere un ramoscello d’ulivo, che ha suggerito di donare ai nostri familiari. Stiamo salendo con loro l’erta del Golgota, abbiamo tutti bisogno di forza e di consolazione. Il sacerdote trova sempre le parole giuste: «Per rinascere bisogna morire». Un po’ morti lo siamo, in effetti. Ma contiamo di farcela a rinascere. Magari un po’ ammaccati, ma in piedi. Ci emozionano i suoi gesti affettuosi, ci assicurano che qualcuno pensa a noi. Oggi invierà in carcere i bignè alla crema, che consumeremo a fine pranzo con qualche fetta delle colombe pasquali acquistate e scambiate tra i detenuti. Non hanno invece superato il rigido vaglio della guardia e sono finiti nel bidone dell’immondizia del magazzino le “cimedde”, i biscotti pasquali della tradizione calabrese che un familiare aveva spedito al congiunto. Pazienza.
Qua dentro tutti dobbiamo qualcosa a qualcuno. Una pacca sulla spalla, un sorriso, una parola di conforto. Un biglietto da spedire per posta, scritto per chi vuole mandare gli auguri di buon compleanno alla figlia, o un disegno per i nipotini di qualche anziano. Riprendere in mano matita, gomma e colori, fa sudare. Ma almeno si sottrae alla monotonia parte di questo tempo vuoto.
Nei giorni scorsi in molti ci siamo “segnati” dal barbiere per una sistematina ai capelli. Bei tempi – racconta chi c’era – quando la sezione ebbe la fortuna di avere tra i detenuti uno del mestiere. Ora dobbiamo accontentarci di Gigi, che di professione fa l’idraulico. Si impegna, ma i risultati non sempre sono ottimali. A sua discolpa va detto che è impossibile ottenere un’acconciatura decente con un rasoio elettrico che si inceppa di continuo e con la forbicina “Chicco”.
Gigi è anche il bibliotecario della sezione, è lui a consegnare i libri richiesti con la “domandina”. Questa mansione la svolge con molta efficienza, almeno dal nostro punto di vista. Sì, perché ad aspettare che la “domandina” venga letta e la richiesta accolta trascorrerebbero intere settimane. La richiesta alla direzione la presentiamo, ma non appena Gigi passa davanti alle celle per rientrare nella sua, o quando ci incontriamo nel cortile, gli affidiamo un “pizzino” con i titoli. Ci penserà lui a farci avere i libri, alla prima occasione utile. Un azzardo passibile di punizione, come qualsiasi azione che contrasti il regolamento.
Salvatore, il lavorante, corre lo stesso rischio quando ci fa avere i guanti in lattice da utilizzare per lavare il water con la candeggina. Sennò ci toccherebbe farlo a mani nude: inspiegabilmente, i guanti non figurano infatti tra i beni acquistabili con la spesa settimanale. Li infila nella borsa di plastica per la frutta e per il pane che lasciamo appesa al cancello della cella e noi, una volta finito il lavoro, li facciamo scomparire nel sacco della spazzatura.
Salvatore oggi sarà fondamentale. Il direttore non ha concesso la “socialità”, che permette ai detenuti di pranzare insieme nella saletta o di riunirsi a gruppi in un unico camerotto, nei giorni di festa. Sarà pertanto compito di Salvatore consegnare la pasta al forno cucinata da Cosimo e dovrà farlo in fretta, prima che anche per lui arrivi il momento di rientrare in cella. Dal suo cubicolo, Cosimo lo chiama a gran voce. Ha iniziato a preparare il pranzo due giorni fa, dopo essersi fatto prestare i fornellini da campeggio e le coppie di padelle che fungono da forno, non riuscendo altrimenti a soddisfare la vasta clientela. Un detenuto lo chiama “Alessandro Borghese”, perché è un vero fenomeno. Giorni fa ha accolto con gli occhi lucidi il disegno realizzato da un carcerato: un cappello da cuoco a strisce rosse e blu, i colori del suo Catania, accompagnato dalla didascalia “Cosimo I, Re degli Chef”.
La pasta al forno di Cosimo è un capolavoro. Ma apprezziamo anche l’assaggio di quella di Roberto, il nostro dirimpettaio che – da buon pugliese – è specializzato nella preparazione delle orecchiette con le cime di rapa. Con la cella di fronte è più facile inviarsi le pietanze, per cui spesso pranziamo “insieme”. Basta posizionare il piatto dentro un contenitore, farlo passare con molta cautela tra le sbarre e sospingerlo con la scopa fino a metà corridoio. Un’altra scopa, dalla cella di fronte, lo avvicina fino a poterlo raccogliere e il pranzo è servito.
Dopo il dolce Stefano appoggia sul tavolo un bicchierino di plastica contenente un liquido giallognolo, opera di Saro. Dice che è limoncello. Non abbiamo idea di quale surrogato abbia impiegato, visto che l’alcool puro non si può acquistare. Dividiamo la bevanda in quattro, un piccolo sorso a testa. Qualsiasi cosa stiamo bevendo, è il liquore più buono mai assaggiato in vita nostra.