«Il signore vale per tutti». Poi partiva il riconoscimento dei ragazzini da parte dell’arbitro, che precedeva l’ingresso in campo. Non tutti avevano la possibilità di pagare per una fototessera, circolavano fotografie surreali: indimenticabile quella, a figura intera, di un bambino che teneva con la mano destra un lungo giglio bianco, nel giorno della prima comunione. L’arbitro pronunciava i cognomi seguendo l’ordine della distinta. I calciatori rispondevano dichiarando il nome e mostrando il numero della maglia, con una veloce torsione del busto. L’ultimo chiamato era il guardalinee, l’uomo più ignorato del pianeta, visto che il direttore di gara non teneva in nessuna considerazione le sue segnalazioni, sapendole spacciatamente di parte. Ma ogni squadra doveva avere il proprio: un dirigente accompagnatore o un tesserato che non figurasse tra i sedici della distinta, perché troppo scarso o perché infortunato.
Corsetta blanda fino a centrocampo, saluto agli spettatori anche quando non c’era nessuno e iniziava il match. Le linee del rettangolo di gioco non sempre erano dritte. Anche dare una mano al custode del campo per “squadrare” il campo era uno spasso. Il gran premio con il carrello segnacampo riempito di calce lasciava sul terreno qualche imperfezione. Soprattutto quando, per fare presto, non si tendeva il filo sul quale occorreva passare con l’attrezzo. O quando si era perso troppo tempo per scavare con la pala il solco necessario per svuotare la pozzanghera d’acqua che immancabilmente si formava dopo la pioggia proprio sulla linea di porta.
Il custode, noto come “il professore”, era un personaggio mitico, artista del tè caldo in inverno e della “limonina” quando le temperature cominciavano a salire. Bevanda da distribuire nell’intervallo tra primo e secondo tempo, per riscaldarsi o per dissetarsi, mentre il mister imprecava. Possedeva un oggetto del quale probabilmente esisteva un unico pezzo, il suo: un’incredibile musicassetta porno che i ragazzini ascoltavano dal suo mangianastri prima degli allenamenti, per ammazzare l’attesa. Era tutto un sospirare e gemere, ma anche un encomiabile lavoro di fantasia. L’uomo più buono del mondo, nonostante i continui richiami ai due ragazzini che non volevano saperne di uscire dalla doccia e andavano via dal campo per ultimi, quando già era buio, perché si dilungavano a chiacchierare seduti sul piatto doccia incrostato di ruggine, sotto il getto dell’acqua bollente che finalmente potevano accogliere tenendo strette le palpebre. Mai chiudere gli occhi, invece, quando si era in tanti, anche a costo di bruciarsi gli occhi con il sapone. Si rischiava di diventare vittime di scherzi atroci. Il più accettabile consisteva nell’arrivo improvviso, su una gamba o altrove, del getto caldissimo della pipì di un compagno. Quando “il professore” si era stancato di urlare che era ora di uscire dalla doccia, staccava la corrente del boiler: fine del film.
Era sempre lui a lavare le divise, che erano quelle della “prima squadra” e dentro le quali i più piccoli scomparivano. La stampa sul petto del nome dello sponsor era una sorta di mattonella che, per caduta, si appoggiava sul bassoventre e diventava pesantissima sotto la pioggia. Come il pallone, anche l’unico mezzo discreto che, se maledettamente un tiro sbagliato gli faceva oltrepassare la recinzione, costringeva a giocare il resto della partita con quello di riserva, scorticato e deformato, dall’eloquente colore grigio scuro. Poteva capitare che non ci fosse il tempo per lavare la divisa utilizzata dai “grandi”, ma per nessuno dei ragazzi è mai stato un problema indossarla sporca. Non era importante, così come non lo erano pantaloni e calzettoni dei più svariati colori. Quelli abbinati alla maglia scomparivano infatti con una certa facilità, anno dopo anno.
L’unica vera preoccupazione la dava il portiere, che veniva a giocare di nascosto, senza che i genitori ne fossero al corrente. Proprio per questo non faceva la doccia, né portava con sé il borsone. Non era il solo a non avercelo. Dentro provvidenziali buste di plastica veniva infilato tutto il necessario, comprese le scarpette mezze scassate, già utilizzate da qualche compagno che aveva acquistato quelle nuove. Memorabile, tuttavia, una tracolla dell’Alitalia adattata allo scopo.
Ragazzini, borsoni e buste si stringevano dentro un’immarcescibile 126 bianca, un fiabesco Maggiolone la cui caratteristica era un buco sotto il tappetino attraverso il quale si poteva osservare l’asfalto della strada, una 127 rossa sulla quale si sfiorò la tragedia quando le piccole pesti svuotarono il plotoncino di fragole incautamente sistemato sopra la mensolina, durante il viaggio di ritorno da Bagnara. E poi lei, la 131 azzurra che non trasportò mai meno di sette calciatori, alcuni dei quali venivano fatti scendere prima dell’arrivo a Gioia Tauro, si arrampicavano sul costone e poi venivano ripresi a bordo della vettura che aveva passato indenne il posto di blocco all’uscita dello svincolo autostradale. Scoppiammo a ridere quando il conducente ci svelò che in Australia aveva imparato il significato dell’acronimo SOS, mentre uno accanto all’altro facevamo la pipì in una piazzola d’emergenza: «Salvate le nostre anime». Aveva ragione lui: Save Our Souls.
Ci abbiamo provato.