Mi ha turbato molto vedere gente inferocita prendere a calci e calpestare il pane. Sono coltellate quelle parole piene di rabbia: «Devono morire di fame!».
Non voglio fare nessun ragionamento che possa apparire di parte, né utilizzare trenta bambini innocenti come scudi umani. Quale parte poi? Quella dell’umanità? Siamo arrivati al punto di dovere giustificare il gesto più nobile che un uomo possa compiere nei confronti di un suo simile?
I calci al pane, il piede che schiaccia la vita e la dignità dell’uomo: su questo bisognerebbe riflettere.
Ho ascoltato storie antiche che si perdono nella notte dei tempi. Quella notte che noi abbiamo voluto buia, per non pensare che accadevano pochi decenni fa; per non ricordare da dove veniamo; per cancellarle dal nostro album di famiglia.
Le storie dei contadini che scalavano a piedi i sentieri dell’Aspromonte con un tozzo di pane in tasca. Le storie di chi pranzava con pane e olive, di chi leccava una sarda e dava un morso a pezzo di pane, di chi ci sfregava sopra un tocco consunto di formaggio. Le storie di chi a 8-10 anni era già un uomo abile al lavoro: e proprio un chilo di pane era la sua paga giornaliera.
Ho visto mia nonna raccogliere il pane caduto a terra e baciarlo. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio anch’io. Ho visto mia nonna girare dal “lato giusto” il pane poggiato sulla tavola “a faccia in giù”: perché il pane è il volto di Cristo, diceva. L’ho visto fare a mia mamma. Lo faccio pure io. Anche se non sono sicuro che il pane sia il volto e il corpo di Cristo. Ma so che il pane è il volto e il corpo dell’uomo, il suo sudore, la sua fatica, la sua dignità.
Questo mi basta per comprendere il sacrilegio di un gesto così disumano.