Sul suicidio politico del partito democratico, unico vero grande sconfitto nella partita incominciata con il dopo-voto di febbraio e conclusa con la riconferma di Giorgio Napolitano al Quirinale, c’è poco da aggiungere a quanto già detto in questi giorni. Il bon ton suggerisce anzi di non infierire con gli sconfitti, che ora dovranno decidere cosa fare di quel che (forse) fu un partito e che oggi – evidentemente – non lo è più. Sarebbe già il segnale di un cambio di marcia riuscire a staccarsi dall’immagine della patacca, proposta puntualmente ad ogni debacle, che produce un partito nuovo in mano alle stesse facce. Cosmesi politica pura.
Intanto, all’orizzonte si profila il governo del presidente, formula che sottintende un ruolo da protagonista assoluto per la prima carica dello Stato. Giorgio II non sarà un semplice notaio della Costituzione, ma rappresenterà il vertice politico al quale i partiti che daranno vita al già annunciato governo di larghe intese dovranno dare conto per quanto concernerà composizione, programma e timing.
L’esecutivo sarà politico perché l’assunzione di responsabilità, cui Napolitano ha richiamato gli schieramenti, passa necessariamente da una sua dimensione “politica”, nonostante la probabile riconferma di qualche tecnico del governo Monti.
Il programma, aggiustato e integrato, attingerà a piene mani dal recente lavoro dei dieci “saggi”, mentre la durata non dovrebbe superare i 12-18 mesi: d’altronde, se un governo di “salvezza nazionale” non riesce a salvare il Paese nel giro di pochi mesi, ha fallito la propria mission. Meno di due anni di tempo per cercare anche di disinnescare Grillo, mediante l’approvazione dei provvedimenti più attesi e invocati dai sostenitori del M5S (e non solo): costi della politica, riforma elettorale, riforme istituzionali.
Esaurito il mandato, l’esecutivo si farà da parte, mentre Napolitano scioglierà le Camere, indirà nuove elezioni e – subito dopo – si dimetterà.
Cosa cambia rispetto a due mesi fa? Cambiano i poteri del presidente della Repubblica, che ora sono pieni, non depotenziati dal semestre bianco. Per cui, o i partiti dimostreranno di essere capaci di fare cambiare rotta al Paese, o andranno presto tutti a casa.
Si poteva fare diversamente? Ovvio che sì. E sarebbe stato anzi auspicabile un messaggio di discontinuità e di rinnovamento. Ma, per uscire dal cul de sac in cui si era precipitati dopo i primi quattro scrutini, migliore soluzione forse non c’era. E questo spiega molto dell’imbuto in cui si sta strozzando il sistema politico italiano.