4 novembre 1918

Quando iniziai la ricerca sui soldati di Sant’Eufemia che presero parte alla Prima guerra mondiale mi affascinava la possibilità di andare oltre le fredde statistiche, comunque inesistenti ad esclusione del totale delle vittime e dei relativi nominativi, desumibili dai nominativi riportati sul monumento dei caduti. Pochi dati, peraltro inesatti, a cominciare dal numero dei caduti. Ma non si trattava soltanto di questo. Ai numeri – noti o meno che fossero – volevo dare un nome, un cognome e un’età. Disegnarli sul foglio: altezza, colore dei capelli e degli occhi, colorito del viso, segni particolari. Conoscere la vita che avevano in paese. E poi fare uno sforzo in più: affiancarli mentre partivano per il fronte e stare con loro sul Carso o sull’altopiano di Asiago, sul fronte francese o su quello balcanico. Soffrire nel freddo delle trincee, affamato come loro quando i rifornimenti tardavano ad arrivare o non arrivavano per niente. Patire gli stenti dei campi di prigionia. Vivere anch’io il dramma e gli orrori di quella immane carneficina. I boati delle cannonate, la pioggia degli shrapnel, i gas asfissianti. La follia degli attacchi “in salita” per conquistare una cima, mentre dall’alto le mitragliatrici del nemico si esercitavano in un facilissimo tiro al bersaglio. Respirare il tanfo dei cadaveri in putrefazione, nei campi di battaglia ridotti a paesaggio lunare. Sentire con le mie orecchie i lamenti dei feriti e le urla disumane degli amputati (“sembrava che scannassero maiali”); poggiare la mia mano sulla fronte degli ammalati, nei lettini degli ospedali da campo. Trascorrere i miei anni migliori con la morte accanto, come era capitato in sorte a loro. Questo volevo.
Ricordare è un atto di giustizia, fare memoria significa riconoscere pari dignità alle piccole/grandi pagine di storia scritte dai nostri avi. Staccare dalle ragnatele del tempo le loro vite, tirare fuori dall’ombra dell’oblio quei 580 giovani di Sant’Eufemia spediti in posti a loro sconosciuti: contadini, pastori, calzolai, falegnami, mulattieri.
Quei fanti erano i nostri nonni e furono mandati al macello. Si beccarono polmoniti, malaria, infezioni intestinali, il congelamento degli arti. Furono fatti prigionieri (72), furono feriti (130) e in 88 morirono (più un fucilato per diserzione): 39 caddero sul campo di battaglia (11 dei quali dispersi), 15 in seguito alle ferite riportate in combattimento, 5 per gli effetti dei gas asfissianti, 6 nei campi di prigionia, 21 per malattia, 2 per infortunio.

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